Se mio padre è riuscito a farmi entrare in testa qualche valore, senza dubbio uno è l’onesta. E i suoi esempi di vita hanno così scavato nella mia persona, che amo definirmi un onesto patologico. Devo esserlo per forza. Non ci sono sconti né mezzi termini. Vivo l’etico-moralmente giusto, lo seguo, mi impegno. Niente scorciatoie. D’altronde una delle poche cose che ricordo della Fisica studiata al liceo è che non importa né il punto di inizio né quello di fine: importa solo il percorso.
Voglio raccontarvi di B., il mio professore di Storia dell’Arte al Liceo. Ora, è bene precisare che tipo di persona fosse; se mi concedete il lusso di farla breve: un grandissimo figlio di puttana. Stronzo, viscido, subdolo, opportunista, meschino, ignorante. Eravamo però abituati bene, devo ammetterlo: lui sciorinava le sue stronzate sugli artisti, noi prendevamo appunti e si decideva poi assieme il giorno delle interrogazioni o del compito in classe. Questa era la prassi. All’ultimo anno però, proprio poco prima della pagella, entrò in classe e ci avvisò del compito a sorpresa. Putiferio: perché noi si studiava solo quando sapevamo di doverlo fare. Urla, grida, proteste. Ma il compito s’aveva da fare.
B. distribuì i fogli e la classe rimase immobile; s’era insieme deciso di non rispondere a nulla e lasciarlo in bianco. Girava infatti questa voce che se nessuno l’avesse svolto, il compito sarebbe stato automaticamente nullo. I primi 15 minuti, comunque, passarono decisi. Lo stronzo alla cattedra ci diceva che dovevamo farlo o ci avrebbe messo 2, con il rischio di dover poi frequentare corsi di recupero nel secondo quadrimestre. Dopo mezz’ora, però, ci sorrise e disse “Oh beh ragazzi io ora devo assentarmi, fate silenzio”. Ci lasciò soli. Soli durante un compito in classe in cui nessuno era preparto, cosa di cui lui era perfettamente conscio. Vi potete immaginare il risultato: un via-via di scopiazzatura da libri e quaderni. Dal canto mio… Be’ cosa potevo mai fare? Io non sapevo rispondere a quelle domande e non risposi. Lasciai il foglio in bianco; non sapevo che scrivere e non volevo copiare. Rientrò in aula a fine lezione e ritirò distrattamente i compiti.
Quando li riportò corretti, il mio aveva un bel 2. Non ricordo bene cosa disse, qualcosa sul fatto che avevo voluto fare l’eroe ed ora mi beccavo un 2 in pagella. Un imbecille insomma. A ricreazione, poi, quando gli passai vicino nel corridoio – era intento a parlare con una collega – fermandomi, disse: “Ecco è lui il ribelle che ha lasciato il compito in bianco, il rivoluzionario”. Allorché guardando lui prima e la sua amichetta poi, risposi: “Prof., ma io veramente non sapevo nulla… cosa voleva facessi: che copiassi?”.
Dopo un breve silenzio, odiandomi con i suoi occhi piccoli e cattivi mi disse: “Ti devi piegare al sistema”. Non capisco sul momento, sorrido e gli rispondo che recupererò il brutto voto. Eppure pensandoci ora trovo in quell’affermazione qualcosa di spaventoso.
Stamane sono uscito per sbrigare alcune faccende e l’ho incontrato per caso. Ci siamo riconosciuti al volo e mi ha invitato a prendere un caffè. Perché no?
I primi minuti sono stati imbarazzanti, passati scambiandoci domande di circostanza: lavora ancora o è in pensione? Sì, studio. Sì, faccio questo. No, non vedo più Tizio. No, non sento più Caia.
Poi mi chiede se ricordo del compito in classe che lasciai in bianco. Certo, me lo ricordo. Mi dice che, sai, je l’ho messa al culo quella volta e ancora gli rode. Che in tutta la sua carriera non c’è stato uno che non abbia copiato a quell’ultimo compito a sorpresa. Perché lui vuole tirare fuori il marcio delle persone; perché siamo tutti dei grandissimi pezzi di merda, anche chi si atteggia a santo. Ma che io l’avevo lasciato in bianco sebbene avessi avuto la possibilità di copiare. Mi chiede la soluzione a questo mistero. Io, allora, gli racconto di me: di chi sono e di ciò che cerco ed inseguo. E lui mi dice che sono proprio un piccolo stronzo; gliel’ho messa al culo e va bene così. Poi, dal nulla, mi dice che gli hanno diagnosticato un tumore. Che il tumore è maligno e non sa ancora quanto precisamente gli resti di vita, ma poco. Me lo dice con gli occhi lucidi, allunga la mano sul tavolino del bar e stringe la mia. Cerca conforto, cerca rassicurazione. Io mi trovo spiazzato; non ho idea di come reagire, non riesco ad esser mosso da pietà. Lo guardo e gli dico che mi dispiace, che deve farsi forza. Recito le frasi di circostanza: che la vita per lui comincia adesso e cose così. Mi chiede cosa intendo. Gli dico che l’uomo il più grande torto lo fa nei confronti del tempo: sprecandolo, buttandolo, regalandolo a chi non lo merita. Che il tempo è davvero l’unica cosa che non può essere data indietro. Impiegare tempo in qualcosa o qualcuno significa donare attimi della nostra vita. Ora stringo la mia mano, che avevo lasciato passiva tra le sue. Adesso lei sa cosa è il tempo: che è limitato e che non può essere sprecato. Questo gli dico. Di pensare a cosa gli piace e di farla. Confessa che ha sempre sognato di andare in Olanda sulla tomba del suo calciatore preferito. Bene: lo faccia. Mi sorride. Forse hai ragione, dice, forse ho buttato un’intera vita a fare un lavoro che non volevo fare con persone con cui non volevo stare. Forse doveva andare così per lui. Non lo so, rispondo, non so se esista il karma o una punizione divina. So solo che Dio non gioca ai dadi ed io non credo nelle coincidenze. Lui rimane un attimo zitto. Mi chiede se leggo fumetti, mi chiede se leggo Moore. Gli sorrido, sì leggo fumetti e sì leggo Moore. Mentre ci alziamo mi dice che VperVendetta è la sua Graphic Novel preferita. Lo ringrazio per il caffè e lui mi dice che in fondo non sono così stronzo. Ci stringiamo la mano e gli do del tu: forse, in fondo, neppure tu sei così stronzo.
Post Scriptum: quando rientrai a casa dopo il compito a sorpresa e raccontai ai miei genitori di averlo lasciato in bianco per non copiare, mio padre sentenziò: figlio mio, sei proprio uno stupido.
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