99. Luce d’Agosto

Se potessi scrivere la sceneggiatura della mia vita, allora vorrei che fosse un interminabile viaggio in auto al calar del sole, con i finestrini abbassati e la luce arancione che invade l’abitacolo, ascoltando musica a volume altissimo ed attraversando infinite distese di campi verdi e di alberi dalla chioma maestosa, con accanto te che canti a squarciagola.

Sarebbe questo un film che non smetterei mai di guardare; consumando tutti i miei sorrisi e piangendo tutte le mie lacrime e poi ancora di più finché non ci fosse un mare dentro la mia stanza.

97. Musica in sottofondo

Gli intrecci dei miei pensieri corrono sulle note di questa canzone. La vita che, a sommi capi e finalmente, ho desiderato non mi appare poi così armoniosa se ripenso a quella da cui scappavo tra gli articoli di questo blog. Un profondo ed intenso sentimento di insoddisfazione e tedio continua ad invadere tutte le fibre del mio animo come cellule che sfuggono ai complicati e sofisticati meccanismi di distruzione; e mi domando: perché. Perché, perché, perché, perché, perché, perché, perché, perché, perché, perché, perché, perché, perché. Questa terribile solitudine. Questa terribile solitudine. Questa terribile solitudine. Questa terribile solitudine sulle note di questa canzone. Assolo di tromba, assolo di chitarra, tum tum tum, percussioni.

95. Analgesico notturno

E niente; ricordo quando, su quella panchina, rubavo il profumo dei tuoi baci e mi sussurravi “ti amo” in tutte le lingue del mondo. Gridavi impaziente il tuo amore, tra le mie promesse bugiarde e le tue speranze tradite. Mi dicevi, accarezzandomi, di pensare solo a te; di lasciar fuori il mondo amandoci tra gli alberi di quella Villa. Ti tenevo sulle mie gambe perso nei tuoi occhi e come un lupo affamato ti provocavo mordendoti e baciandoti il collo. Tiravi indietro la testa e godevi di quei rapidi baci, pensando -chissà- d’esser dentro un sogno. E sogno lo era per davvero: ché non ho resistito a baciarti poi le splendide labbra. Un bacio, due baci, dieci baci. Ore ad assaporare i tuoi baci e il tuo caldo respiro. Ti ho amata quel pomeriggio. Ti ho amata su quella panchina. Ti ho amata sapendo che sarebbe finita: ascoltavamo dalle cuffiette la tua canzone preferita e non avevo coraggio nel dirti che ci saremmo presto svegliati. Ma poi s’è fatto tardi e m’hai costretto ad alzarci. Camminavi davanti; così t’ho preso per i fianchi e girandoti t’ho baciata, ricordi? Ridesti nel dirmi che non c’era più tempo e il treno sarebbe partito. Nella metro m’hai chiesto un pegno d’amore: un bacio davanti a tutti, incuranti di tutto. Te ne ho rubato un altro e poi un ultimo sul treno.
Ma il treno se ne è andato e il mio amore con lui. Perché era troppo bello per essere vero e tu troppo bella per non essere un sogno. Alla fine della Fiaba, mia cara, tu sei la principessa ma io solo un inetto.

91. Pensieri al soffitto

La mia vita, se ci penso, è stata costantemente scandita dalla presenza di quattro pareti; quattro muri bianchi a delimitare e limitare il mio orizzonte e i miei confini. E fin da piccolo ho sempre trovato un inspiegabile piacere nel trascorrere e scandire le mie ore rinchiuso e racchiuso nel tepore d’una stanza; quasi fosse un atavico istinto alla sopravvivenza rifuggendo una società ed una realtà che mai ho pienamente sentito fatte a mia immagine e somiglianza. E mentre spensierati coevi trascorrevano le loro giornate all’aria aperta, io le trascorrevo chiuso in mondi virtuali tra illusorie fantasie; e mentre loro s’aprivano alla vita, io mi nascondevo da essa cercando disincantato un rifugio sincero, una rocca sicura. E l’allora futuro – internet – aiutava i disperati come me nell’evasione reale; e li rendeva capaci di sopravvivere alla realtà con facili bugie.
Qui disteso, ora, sul letto osservo il soffitto bianco e mi domando perché io ami passare così tanto tempo chiuso tra queste pareti quando tengo nelle mani il potere di scoprire il mondo e le sue persone; persone in carne e ossa, membra pulsanti fatte di budella e cuore e ragione e pensieri come son fatto io.
Amo e adoro creare telematici e fragili rapporti, conoscenze intangibili e astratte amicizie… Mentre mi perdo la vita che scorre con violenza al di fuori d’una finestra – la mia – adorna di inferiate che, più che proteggermi dall’esterno, paiono trattenermi qua dentro.

La paura fa 90.

Prima di trasferirsi in questa casa e in questo quartiere, sino al 1996 la mia famiglia alloggiava poco oltre il Ponte. La casa me la ricordo immensa, con il bellissimo salotto che s’apriva nella sala da pranzo riempita dal lungo tavolo di vetro e le sedie in pelle e legno nero lucido. Il bagno completamente in marmo, d’un colore chiaro e rilassante; ed è proprio qui, seduto sul ripiano del lavabo, che mio fratello sbirciava nella scollatura della baby sitter. Ché Titti si è sempre presa cura solamente di mio fratello e me, i due più piccoli della casa; le due sorelle, già grandi, le giornate le passavano alle elementari mentre noi imparavamo la vita. L’unico ricordo indelebile che serbo del periodo con lei sono le mattine trascorse a visitare il ristorante cinese vicino casa, con il pavimento ad acquario che s’offriva da sfondo ai clienti impegnati a gustare un raviolo al vapore o un piatto d’anatra all’arancia. E noi s’andava là a guardare i veloci pesci neri mescolarsi tra i colori della vegetazione acquatica, cercando di individuare il più grande tra loro sotto gli occhi infastiditi dei camerieri cinesi e quelli rallegrati della tata d’aver trovato come tenerci occupati.

A Roma piove da ieri notte: non è cessato un momento di tirar giù acqua quest’oggi; pare che molti quartieri siano rimasti allagati ed una parte del GRA chiuso a causa d’una frana. La tipica giornata che t’invita a rimanere a casa tra il calore artificiale d’un termosifone e la compagnia di un libro. Eppure, facendo coazione inattesa sulla mia stessa persona, con mio fratello abbiamo deciso d’andare a mangiare al cinese con le rispettive ragazze. E, niente, c’è venuto da tornar là dopo tanti anni; per la prima volta come clienti e non da sgraditi visitatori. E come ogni ricordo del passato edulcorato dal tempo ciò che ho trovato non è ciò che ricordavo: è tutto più piccolo e i pesci non ci sono più. Son morti o forse serviti tra un gambero e l’altro ad ignari commensali. Ma s’è mangiato bene. E giù di corsa fino a casa, poi, sazi e distesi sul divano a guardare Jumanji come si fosse ancora negli anni ’90.
Il termine della notte s’è già fatta largo, mentre io scrivo le parti di questi pensieri e mio fratello registra la sua videoteca su un’applicazione poc’anzi scoperta. Ognuno fa il suo per rimanere occupato e non pensare che domani, forse, non pioverà più e questa voglia di tornar bambini sarà passata assieme al maltempo.

85.

Camminiamo l’uno affianco all’altro, io e Céline, in questo lungo viaggio al termine della notte. E mentre, ingenuo, cerco di stare al passo che non è il mio ascolto vomitare il suo odio per l’ingiusto schifo della vita.
Ricordare che c’è chi lo accosta a quel coglione di Bukowski ogni tanto fa male, e mi rattrista; come se fosse amico mio.
E poi penso vorrei fermarmi, interrompere questo viaggio, arrivare mai al termine…
…e se, solo per questa volta, la notte durasse per sempre? Ed il mattino non arrivasse? Il mattino con l’oro in bocca e, forse, non solo; quella puttana. Ma come posso dirlo al mio viaggiatore? Lui che alla fine c’è arrivato e ha visto tutto e si è fatto carico sulle sue spalle anche del mio dolore.
Chiudo gli occhi e la notte s’addormenta meco; domani è ancora un altro giorno.

84.

Queste parole volevo scrivertele da molto, ma non ho mai trovato modo di ammettere a me stesso la necessità di farlo. Io, ora, davvero non saprei dirti se quella che ho visto eri davvero tu: ma istintivamente il cuore si è fermato all’improvviso, paralizzato dall’emozione e dall’imbarazzo. Stavi aspettando un’amica entrata nel bagno ed ho potuto ammirarti in tutta la tua bellezza che mi ha sempre stravolto ma che non ho mai avuto il coraggio di riconoscerti. Eri tu o forse no? Cosa importa quand’anche non fosse (più ci penso e più mi convinco che la tua presenza non solo a Roma, ma anche in quel preciso pub, è così improbabile da sfiorare l’impossibile), se per me eri proprio tu?
Sarei un bugiardo a dirti che non ti penso; e mi chiedo come stai, cosa fai, con chi passi le tue giornate e se finalmente sei riuscita a trovare te stessa e la strada che hai sempre fatto fatica a tracciare.
Spesso fa male pensare che non avremo mai più modo di intrecciare le nostre vite. Ma sorrido quando penso che, seppur così lontani, ci sarà sempre il nostro ricordo a tenerci vicini.

73.

Puntualmente capitano periodi in cui perdo il ritmo. Mia madre li riconosce subito, e prende a dirmi che sono un po’ sbandato.
Succede quando non riesco più a mantenere in ordine la folla che passeggia nella mia testa, e tutto si confonde in un acquarello di pensieri e preoccupazioni.

Passerà anche questa volta.

68.

Se mio padre è riuscito a farmi entrare in testa qualche valore, senza dubbio uno è l’onesta. E i suoi esempi di vita hanno così scavato nella mia persona, che amo definirmi un onesto patologico. Devo esserlo per forza. Non ci sono sconti né mezzi termini. Vivo l’etico-moralmente giusto, lo seguo, mi impegno. Niente scorciatoie. D’altronde una delle poche cose che ricordo della Fisica studiata al liceo è che non importa né il punto di inizio né quello di fine: importa solo il percorso.

Voglio raccontarvi di B., il mio professore di Storia dell’Arte al Liceo. Ora, è bene precisare che tipo di persona fosse; se mi concedete il lusso di farla breve: un grandissimo figlio di puttana. Stronzo, viscido, subdolo, opportunista, meschino, ignorante. Eravamo però abituati bene, devo ammetterlo: lui sciorinava le sue stronzate sugli artisti, noi prendevamo appunti e si decideva poi assieme il giorno delle interrogazioni o del compito in classe. Questa era la prassi. All’ultimo anno però, proprio poco prima della pagella, entrò in classe e ci avvisò del compito a sorpresa. Putiferio: perché noi si studiava solo quando sapevamo di doverlo fare. Urla, grida, proteste. Ma il compito s’aveva da fare.

B. distribuì i fogli e la classe rimase immobile; s’era insieme deciso di non rispondere a nulla e lasciarlo in bianco. Girava infatti questa voce che se nessuno l’avesse svolto, il compito sarebbe stato automaticamente nullo. I primi 15 minuti, comunque, passarono decisi. Lo stronzo alla cattedra ci diceva che dovevamo farlo o ci avrebbe messo 2, con il rischio di dover poi frequentare corsi di recupero nel secondo quadrimestre. Dopo mezz’ora, però, ci sorrise e disse “Oh beh ragazzi io ora devo assentarmi, fate silenzio”. Ci lasciò soli. Soli durante un compito in classe in cui nessuno era preparto, cosa di cui lui era perfettamente conscio. Vi potete immaginare il risultato: un via-via di scopiazzatura da libri e quaderni. Dal canto mio… Be’ cosa potevo mai fare? Io non sapevo rispondere a quelle domande e non risposi. Lasciai il foglio in bianco; non sapevo che scrivere e non volevo copiare. Rientrò in aula a fine lezione e ritirò distrattamente i compiti.
Quando li riportò corretti, il mio aveva un bel 2. Non ricordo bene cosa disse, qualcosa sul fatto che avevo voluto fare l’eroe ed ora mi beccavo un 2 in pagella. Un imbecille insomma. A ricreazione, poi, quando gli passai vicino nel corridoio – era intento a parlare con una collega – fermandomi, disse: “Ecco è lui il ribelle che ha lasciato il compito in bianco, il rivoluzionario”. Allorché guardando lui prima e la sua amichetta poi, risposi: “Prof., ma io veramente non sapevo nulla… cosa voleva facessi: che copiassi?”.
Dopo un breve silenzio, odiandomi con i suoi occhi piccoli e cattivi mi disse: “Ti devi piegare al sistema”. Non capisco sul momento, sorrido e gli rispondo che recupererò il brutto voto. Eppure pensandoci ora trovo in quell’affermazione qualcosa di spaventoso.

Stamane sono uscito per sbrigare alcune faccende e l’ho incontrato per caso. Ci siamo riconosciuti al volo e mi ha invitato a prendere un caffè. Perché no?
I primi minuti sono stati imbarazzanti, passati scambiandoci domande di circostanza: lavora ancora o è in pensione? Sì, studio. Sì, faccio questo. No, non vedo più Tizio. No, non sento più Caia.
Poi mi chiede se ricordo del compito in classe che lasciai in bianco. Certo, me lo ricordo. Mi dice che, sai, je l’ho messa al culo quella volta e ancora gli rode. Che in tutta la sua carriera non c’è stato uno che non abbia copiato a quell’ultimo compito a sorpresa. Perché lui vuole tirare fuori il marcio delle persone; perché siamo tutti dei grandissimi pezzi di merda, anche chi si atteggia a santo. Ma che io l’avevo lasciato in bianco sebbene avessi avuto la possibilità di copiare. Mi chiede la soluzione a questo mistero. Io, allora, gli racconto di me: di chi sono e di ciò che cerco ed inseguo. E lui mi dice che sono proprio un piccolo stronzo; gliel’ho messa al culo e va bene così. Poi, dal nulla, mi dice che gli hanno diagnosticato un tumore. Che il tumore è maligno e non sa ancora quanto precisamente gli resti di vita, ma poco. Me lo dice con gli occhi lucidi, allunga la mano sul tavolino del bar e stringe la mia. Cerca conforto, cerca rassicurazione. Io mi trovo spiazzato; non ho idea di come reagire, non riesco ad esser mosso da pietà. Lo guardo e gli dico che mi dispiace, che deve farsi forza. Recito le frasi di circostanza: che la vita per lui comincia adesso e cose così. Mi chiede cosa intendo. Gli dico che l’uomo il più grande torto lo fa nei confronti del tempo: sprecandolo, buttandolo, regalandolo a chi non lo merita. Che il tempo è davvero l’unica cosa che non può essere data indietro. Impiegare tempo in qualcosa o qualcuno significa donare attimi della nostra vita. Ora stringo la mia mano, che avevo lasciato passiva tra le sue. Adesso lei sa cosa è il tempo: che è limitato e che non può essere sprecato. Questo gli dico. Di pensare a cosa gli piace e di farla. Confessa che ha sempre sognato di andare in Olanda sulla tomba del suo calciatore preferito. Bene: lo faccia. Mi sorride. Forse hai ragione, dice, forse ho buttato un’intera vita a fare un lavoro che non volevo fare con persone con cui non volevo stare. Forse doveva andare così per lui. Non lo so, rispondo, non so se esista il karma o una punizione divina. So solo che Dio non gioca ai dadi ed io non credo nelle coincidenze. Lui rimane un attimo zitto. Mi chiede se leggo fumetti, mi chiede se leggo Moore. Gli sorrido, sì leggo fumetti e sì leggo Moore. Mentre ci alziamo mi dice che VperVendetta è la sua Graphic Novel preferita. Lo ringrazio per il caffè e lui mi dice che in fondo non sono così stronzo. Ci stringiamo la mano e gli do del tu: forse, in fondo, neppure tu sei così stronzo.

Post Scriptum: quando rientrai a casa dopo il compito a sorpresa e raccontai ai miei genitori di averlo lasciato in bianco per non copiare, mio padre sentenziò: figlio mio, sei proprio uno stupido.

66.

Ci sono giornate in cui manco il senso della vita; come se quel grosso buco dentro ogni uomo si facesse più largo. Ecco: ci sono giornate in cui divento un enorme buco che s’affaccia sul vuoto d’un grattacielo; un tutt’uno con il nulla.

Il punto&virgola è ciò che sta a metà. Ciò che è indefinito e senza appartenenza, a metà tra il tutto e il niente. È il Ti metaxú platonico: il giusto mezzo.

60.

Ho speso dieci minuti d’orologio nel tentare di mettere assieme un esordio accattivante. Perché quando scrivi – e quando vuoi che qualcuno legga ciò che hai da dire – non puoi accontentarti di rivolgere le tue parole solo a te stesso; devi essere in grado, se realmente lo desideri, di arrivare nella testa del lettore. Se, poi, riesci a giungere anche al cuore, hai scritto qualcosa di bello e non solo d’interessante.

Chi segue questo blog sa, o almeno dovrebbe sapere, che ho ventidue anni. Molti, forse, sanno che sono di Roma. Pochi sanno cosa studio o cosa faccio. Forse nessuno, ad esclusione di pochissimi, sa che ho i capelli rossi. E che ce frega?, direte voi. In teoria, non dovrebbe in alcun modo difatti.

A Roma, quand’ero piccolo, si diceva che chi avesse i capelli rossi portasse sfiga. Si usava toccare un vicino, incrociare indice e medio e proferire “roscio tuo chiuso”. Probabilmente ora reagirei in maniera matura; ma un bambino ci soffre. Io ci ho sofferto.
Vedersi umiliato così, in pubblico, etichettato come sfigato. Disprezzato per il colore dei capelli che io non ho scelto e che non ho mai voluto. Ti fa male dentro, ti fa sentire inferiore agli altri, ti fa sentire diverso. E cosa c’è di più umanamente degradante e disumano, di più violento e profondamente sbagliato che far sentire una persona diversa?
Non mi piaceva più uscire di casa; non mi piaceva camminare in mezzo ai ragazzi più grandi con il timore di quel “roscio tuo chiuso” urlato senza pietà. A nuoto, poi, c’era questo ragazzo che in doccia si grattava il pube e si rivolgeva a me dicendomi  “porti sfiga”;  seguirono il suo esempio poi tanti altri. Ed io, là, stavo zitto, mi lavavo, mi vestivo e andavo via. Ma a casa piangevo, non capivo il perché di quelle parole, di quel disprezzo. E piangendo pensavo a “The power of one” (splendido film tratto dall’omonimo romanzo) dove c’è questa scena, terribile, ambientata in un orfanotrofio: al protagonista, nelle docce, viene pisciato addosso dai ragazzi più grandi. Ed io questa scena la sento forte: perché nessuno mi ha mai pisciato addosso, ma è come se mi fosse stato fatto.
Sono piccole cose che cambiano radicalmente la struttura di una mente. Probabilmente non perderò mai questo senso di diversità che porto dentro; questo fortissimo malessere quando entro in un luogo affollato ed immagino che tutti mi stiano osservando per il colore dei capelli.
E tutto questo racconto… perché oggi mi domando come doveva sentirsi un nero nell’America della schiavitù. Come doveva essere guardato: con quale disprezzo, con quale derisione e disgusto.
In America la schiavitù prende ufficialmente piede intorno al 1619, continuata lungamente negli Stati del Sud (ricchi di piantagioni) fino alla Guerra Civile del 1865, al termine della quale venne promulgato il XIII Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. La schiavitù si realizzava nell’utilizzo di manodopera acquistata in Africa per essere utilizzata come servitori e raccoglitori nelle piantagioni delle colonie. Nel periodo che intercorre tra il XVI e il XIX secolo si stima che circa 12 milioni di africani siano stati trasportati nelle Americhe. Ma le cifre non sono veritiere: si parla difatti tra gli storici di numeri molto, molto più grandi.

Il trattamento degli schiavi negli USA variava a seconda del periodo al quale ci si riferisce e alla località. Ma, generalmente, le condizioni di vita erano pessime, caratterizzate da brutalità dei padroni, degradazione e disumanità. Le frustate per insubordinazione, le esecuzioni e gli stupri all’ordine del giorno. Le punizioni per gli schiavi insubordinati erano fisiche, come frustate, bruciature, mutilazioni, marchiatura a fuoco, detenzione e impiccagione. Talvolta erano elargite senza un motivo preciso, ma solo per confermare la posizione dominante dei padroni. Gli schiavisti negli USA spesso abusavano sessualmente delle schiave, e le donne che opponevano resistenza solitamente uccise. Per preservare la “razza pura” erano severamente vietati rapporti sessuali tra donne bianche e uomini neri, ma lo stesso divieto non era previsto per i rapporti tra uomini bianchi e donne nere. (Wikipedia)

Questo è quanto viene scritto, chissà quanto è stato taciuto. Che torture, che umiliazioni, che soprusi. Questo è il mio giorno della memoria.

Immagine

(Peter, uno schiavo di Baton Rouge, Louisiana, 1863, le cui cicatrici sono il risultato della violenza continuata da parte dei responsabili delle piantagioni. Wikipedia)