60.

Ho speso dieci minuti d’orologio nel tentare di mettere assieme un esordio accattivante. Perché quando scrivi – e quando vuoi che qualcuno legga ciò che hai da dire – non puoi accontentarti di rivolgere le tue parole solo a te stesso; devi essere in grado, se realmente lo desideri, di arrivare nella testa del lettore. Se, poi, riesci a giungere anche al cuore, hai scritto qualcosa di bello e non solo d’interessante.

Chi segue questo blog sa, o almeno dovrebbe sapere, che ho ventidue anni. Molti, forse, sanno che sono di Roma. Pochi sanno cosa studio o cosa faccio. Forse nessuno, ad esclusione di pochissimi, sa che ho i capelli rossi. E che ce frega?, direte voi. In teoria, non dovrebbe in alcun modo difatti.

A Roma, quand’ero piccolo, si diceva che chi avesse i capelli rossi portasse sfiga. Si usava toccare un vicino, incrociare indice e medio e proferire “roscio tuo chiuso”. Probabilmente ora reagirei in maniera matura; ma un bambino ci soffre. Io ci ho sofferto.
Vedersi umiliato così, in pubblico, etichettato come sfigato. Disprezzato per il colore dei capelli che io non ho scelto e che non ho mai voluto. Ti fa male dentro, ti fa sentire inferiore agli altri, ti fa sentire diverso. E cosa c’è di più umanamente degradante e disumano, di più violento e profondamente sbagliato che far sentire una persona diversa?
Non mi piaceva più uscire di casa; non mi piaceva camminare in mezzo ai ragazzi più grandi con il timore di quel “roscio tuo chiuso” urlato senza pietà. A nuoto, poi, c’era questo ragazzo che in doccia si grattava il pube e si rivolgeva a me dicendomi  “porti sfiga”;  seguirono il suo esempio poi tanti altri. Ed io, là, stavo zitto, mi lavavo, mi vestivo e andavo via. Ma a casa piangevo, non capivo il perché di quelle parole, di quel disprezzo. E piangendo pensavo a “The power of one” (splendido film tratto dall’omonimo romanzo) dove c’è questa scena, terribile, ambientata in un orfanotrofio: al protagonista, nelle docce, viene pisciato addosso dai ragazzi più grandi. Ed io questa scena la sento forte: perché nessuno mi ha mai pisciato addosso, ma è come se mi fosse stato fatto.
Sono piccole cose che cambiano radicalmente la struttura di una mente. Probabilmente non perderò mai questo senso di diversità che porto dentro; questo fortissimo malessere quando entro in un luogo affollato ed immagino che tutti mi stiano osservando per il colore dei capelli.
E tutto questo racconto… perché oggi mi domando come doveva sentirsi un nero nell’America della schiavitù. Come doveva essere guardato: con quale disprezzo, con quale derisione e disgusto.
In America la schiavitù prende ufficialmente piede intorno al 1619, continuata lungamente negli Stati del Sud (ricchi di piantagioni) fino alla Guerra Civile del 1865, al termine della quale venne promulgato il XIII Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. La schiavitù si realizzava nell’utilizzo di manodopera acquistata in Africa per essere utilizzata come servitori e raccoglitori nelle piantagioni delle colonie. Nel periodo che intercorre tra il XVI e il XIX secolo si stima che circa 12 milioni di africani siano stati trasportati nelle Americhe. Ma le cifre non sono veritiere: si parla difatti tra gli storici di numeri molto, molto più grandi.

Il trattamento degli schiavi negli USA variava a seconda del periodo al quale ci si riferisce e alla località. Ma, generalmente, le condizioni di vita erano pessime, caratterizzate da brutalità dei padroni, degradazione e disumanità. Le frustate per insubordinazione, le esecuzioni e gli stupri all’ordine del giorno. Le punizioni per gli schiavi insubordinati erano fisiche, come frustate, bruciature, mutilazioni, marchiatura a fuoco, detenzione e impiccagione. Talvolta erano elargite senza un motivo preciso, ma solo per confermare la posizione dominante dei padroni. Gli schiavisti negli USA spesso abusavano sessualmente delle schiave, e le donne che opponevano resistenza solitamente uccise. Per preservare la “razza pura” erano severamente vietati rapporti sessuali tra donne bianche e uomini neri, ma lo stesso divieto non era previsto per i rapporti tra uomini bianchi e donne nere. (Wikipedia)

Questo è quanto viene scritto, chissà quanto è stato taciuto. Che torture, che umiliazioni, che soprusi. Questo è il mio giorno della memoria.

Immagine

(Peter, uno schiavo di Baton Rouge, Louisiana, 1863, le cui cicatrici sono il risultato della violenza continuata da parte dei responsabili delle piantagioni. Wikipedia)